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Un po’ di Bristol e un po’ di Cecilia

  • Immagine del redattore: Astra
    Astra
  • 12 mag 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 6 giu 2022

Cecilia aveva ventitré anni quando decidemmo, con una penna lanciata contro la cartina d’Europa, di andare a vivere a Bristol. Lei non aveva ancora finito l’università, io ero disoccupato. Mia madre si rifiutava di darmi qualsiasi tipo di aiuto in virtù dei miei trentadue anni. Sapevo che le sarei mancato, tuttavia, ed era dolce quando chiamava la sera tardi — “È solo un’ora indietro di fusorario, mamma” — anche se poi le sue critiche velate di una certa premura nei miei confronti si mischiavano alle voci delle vecchine che aiutavo a caricare la spesa in macchina in un piccolo supermercato del centro. In quella confusione, sul materasso vecchio su cui dormivamo e i soldi che tendevano a non bastare mai, Cecilia stava ritrovando se stessa. Per lei era un gioco: fare la ragazza alla pari, curare una casa non sua e bambini bavosi e rumorosi con un amore sproporzionato. Stava via molto più di me, e quando tornava la sera non sapeva fare altro che andare a fare una doccia e buttarsi a letto. La mattina tuttavia si svegliava col sorriso.

Stare ad osservarla mentre trovava qualcosa che la potesse rendere felice mi fece sentire estremamente in ritardo, rispetto a lei e rispetto alla vita in generale. Non sapevo cosa ci facevo in Inghilterra, non sapevo cosa volevo e non sapevo cosa ne sarebbe stato di me. Cecilia, per quando mi fosse cara e l’amassi, non era abbastanza per rassicurarmi. Ciò che per un po’ mi tenne incuriosito fu il bizzarro rapporto instauratosi tra lei e la nostra vicina di casa, una signora sulla settantina tutta bigodini e vestiti a fiori, una voce estremamente dolce ed un temperamento pacato che si confaceva perfettamente alla sua età. Insomma, lo stereotipo di nonna perfetta, o almeno questo dava da pensare, anche in virtù della bimba di cui si prendeva cura: Abigail, sette anni. Silenziosa ma sempre sorridente, passava tempo a disegnare con i suoi pennarelli e a giocare con mattoncini Lego. Secondo la nonna era la bambina perfetta, affettuosa ed educata. Ascoltava, pazientava se c’era da aspettare, non faceva i capricci a sproposito, passava tanto tempo all’aria aperta ed andava bene a scuola. A sentirla lodare talmente la bambina mi feci l’idea che dovesse essere proprio unica nel suo genere. Mi chiesi poi se tutta questa “perfezione” non le avrebbe fatto male a lungo andare. Non fu così, semplicemente Abigail aveva un’indole pacata, radicata nel profondo.

Cecilia, con il suo amore per i bambini, non vedeva l’ora di sentire che la signora — Rosemund, per comodità Rose — avesse qualche tipo di impegno per occuparsi della piccola. Non che fosse di grandissima compagnia, anche perché sì, aveva solo sette anni, ma sapeva davvero alleggerire la, inerte in cui entrava. Per il periodo in cui Rose dovette passare tanto tempo in ospedale per via di diversi esami, che sapevano tenerla occupata intere mattine o pomeriggi, spesso mi trovavo io da solo con Abigail. I momenti più preziosi e che preferivo erano quando si metteva a disegnare in terra, e io la imitavo, tornando bambino qualche ora. Lei disegnava animaletti, case, montagne innevate, io invece illustravo i libri lasciati lì dall’affittuario dell’appartamento, a penna o matita, nello spazio del margine della pagina. Ogni tanto mi chiedeva di mettere la musica. La prima volta fui un po’ titubante, credendo mi avrebbe chiesto una colonna sonora Disney, invece disse “Come si chiama quella musica con gli strumenti grandi e il pianoforte?”, parlava di musica classica.

Rose passava sempre più tempo in ospedale e Abigail sempre più tempo con noi. Ci accordammo per parlare con la signora, per sapere cosa pensava di fare per la bambina.

“Cari ragazzi, credo che dovrò cercare aiuto dagli assistenti sociali,” ci disse con un sorriso un po’ sofferente. Ci raccontò qualche cosa, perché dopo quasi quattro mesi che la aiutavamo con Abby le sembrava il momento di darci una spiegazione. I genitori erano morti in un incidente, e Rosemund era l’unica parente che le rimaneva, almeno in Inghilterra, che fosse disposta ad occuparsi di lei. E avrebbe continuato per tutta la vita che le restava, se una malattia ai reni non la stesse consumando piano piano. Mentre Rose spariva, noi cercavamo di consolare Abigail e di curarla come meglio riuscivamo. In verità, lo avremmo compreso tempo dopo, lei stava curando noi, senza versare una lacrima di troppo o dare l’impressione di non star seguendo ciò che stava accadendo attorno a lei. Forse e semplicemente non realizzava a che cosa sua nonna stava andando incontro. Rose se ne andò in estate piena ma in un giorno di pioggia. Scoprimmo che da testamento ci aveva lasciato quasi tutto quello che aveva, anche la

custodia della nipote: la piccola Abigail, gli occhi di pianto, stringeva la mano a Cecilia, mentre lanciava una manciata di terra e poi una rosa giù nella spaccatura della terra dove Rose riposava. Anche io piansi, preoccupato per l'avvenire, ed anche adirato con la vecchia donna per averci affidato una vita, e non una qualsiasi, una decisamente speciale.

Gli assistenti sociali ce ne fecero passare un po', indagarono su di noi, e nonostante tutte le variabili e le insicurezze, decidemmo di tenere Abby. A riparlarne, più avanti, quasi ci convincemmo che Abigail era nostra figlia arrivata sette anni in ritardo. Cercammo di darle tutto quello che potevamo, come potevamo. Cercammo entrambi un lavoro che ci facesse guadagnare il giusto, riuscimmo a trovare una casa a Londra, Abigail crebbe sempre meglio.

La lezione più grande che imparai, se così si può dire, è che le cose arrivano quando devono arrivare. Il tempo non bada all’età anagrafica o a quella mentale: viaggia col suo passo, imprevedibile ed incontrollato. E così andavo, e così Cecilia, e così Bristol e Abigail.

 
 
 

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