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Pierre

  • Immagine del redattore: Astra
    Astra
  • 4 apr 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 13 mag 2022




Quando decisi di andare a vivere qualche mese a Parigi sapevo cosa aspettarmi. Mi sarei destreggiata tra l'università, una passeggiata sulla Senna, il calore dell'autunno che si riflette sui romantici edifici.

Non vedevo spazio per altro, per qualcuno. Nel mio immaginario c'ero io, finalmente lontana da casa, dalle aspettative, dagli occhi indiscreti. Tra le crepe della mia realtà perfetta si intrufolò Pierre.

O meglio, non so quale sia il suo nome. Era asiatico, dai capelli stinti e biondi, gli occhi felini ed un pessimo accento sul suo povero inglese.

Era vagabondo, dormiva poco o niente tra uno spostamento e l'altro in metropolitana. Faceva scambi assurdi per vitto ed alloggio – "che ne dite di una serata gratis per una notte nel retro?", diceva nei piano bar. C'era chi si fidava di Pierre, che con gli sconosciuti era onesto e con i conoscenti un po' meno.

Si accompagnava sempre con un altro ragazzo, asiatico anche in lui: parlavano la loro lingua piano, fuori dalla mia università, e si imbattevano sempre nel mio sguardo.

Riuscii a parlarci, un giorno soltanto, e per puro caso.

“Your friend didn't come today", gli dissi, avendolo trovato alle cancellate.

"Sank you".

"Didn't he told you about this?"

alzò le spalle. Sembrava piuttosto scoraggiato. Si nascondeva nella sua sciarpa, nonostante fossimo ai primi di marzo.

"May I offer you a coffee? You seem pretty cold."

Alzò un sopracciglio, emerse dalla sua sciarpa. "I… no money."

"No worries. You have to console yourself since your friend left you here."

Mi seguì al bar dell'università. Prese un americano, un po' me lo aspettavo.

Parlava un qualcosa di francese, ci arrangiammo così.

Pierre raccontava fatti sulla sua vita che si capiva fossero un po' inventati, un po' romanzati. Ame piaceva ascoltarlo, anche se non si dilungava e metteva qui e lì del sarcasmo.

Allungò il suo fascino disastrato su di me come un impermeabile. E non so spiegarmi come, ma mi fece sentire tutta la gloria dei miei vent'anni. Mi fece aprire gli occhi su quante cose non avessi fatto e che avrebbero fatto la differenza tra il sentire e il vivere la mia età.

Ci intrufolammo in un palazzo abbandonato, bevemmo della birra sul tetto, aspettando l'alba.

Ballammo su un tram alle tre del mattino di ritorno da un concerto jazz.

Mi fece conoscere i suoi amici, uno più bohemien dell'altro: due ballerini di strada, un chitarrista, uno scrittore, un dog sitter, un pittore. Vivevano nella soffitta del chitarrista, ammassati su cinque materassi e vagamente disperati. Dormii lì una volta, tra le braccia del pittore, che senza alcuna pretesa mi tenne al caldo in assenza di abbastanza coperte.

Sembravano felici. E paradossalmente, con tutte le complicazioni, Pierre mi sembrava esserlo più di tutti.

Un giorno prendemmo la sua bici – che, giocando con l'inglese, mi aveva fatto credere essere una moto – e pedalò con me sul portapacchi per diversi chilometri fuori Parigi. Ci inoltrammo spaventosamente in una campagna verso le sette di sera.

“La gomma, Pierre!” urlai ad una certa. Dopo un bop abbiamo iniziato a rallentare, e la sera continuava a scendere. Litigammo, davvero forte, con le nostre lingue che non si capivano. Mentre aspettammo che il suo amico ci venisse a prendere, mi convinse a fare l’amore nonostante il freddo e il letto di foglie. Mi salutò dicendomi che non poteva credere di avermi trovata.

Però la mia casa era un’altra, le nostre vite si scontravano in infiniti modi e non c’era momento in cui potevo dirmi sicura di lasciare tutto per un vagabondo senza futuro. Tuttavia mi lasciai insegnare che si potevano infrangere le regole per il semplice gusto della ribellione.

Dominai l’arte della disubbidienza.

Mi attira i pareri di tutti i generi, chi inneggiava a continuare per la via, chi, come la mia famiglia, si scioglieva in fondi di rimprovero. Ascoltavo, in silenzio, mentre Pierre mi baciava il collo. Fu doloroso capire che il nostro tempo era limitato. Io ero cresciuta in un mondo troppo nero, e lui era come un tubetto di pittura da spremere su i muri. Ci voleva un certo coraggio.

Pianse, stranamente, con il naso che colava e la voce triste. Lo portavo con i piedi per terra, diceva, poteva addirittura provare a starci da solo, legato al pavimento.

Non volevo che cambiasse per me. Avrei potuto affezionarmi al vero Pierre, quello senza sarcasmo e bugie, magari più onesto e brutale. Però mi feci stringere, forte e con entrambe le braccia. Tanto lo appesantivo io, quanto più lui.

“Come posso tenerti qui se hai le ali abilissime?” tentai di spiegargli. Fece finta di non capire il francese che avevamo studiato insieme.

Dimenticai Parigi e l’idea che mi ero fatta di lei. Ma a Pierre ci penso ancora. Ai suoi occhi, alla sua lingua impossibile, ai suoi capelli stinti. Ci penso e vado giù, giù, giù nella speranza di bere ancora un americano in quel caffè di Parigi, di bere l’amore che diceva di provare per me.



L’angolo di Astra, retaggio di Wattpad

Credo che Pierre sia stato il racconto migliore che io abbia mai scritto, o forse semplicemente ha mosso più lodi che critiche. O forse è uno dei pochi testi che effettivamente io abbia fatto leggere a qualcuno che potesse intendersene di scrittuda. È un rischio porlo comeprimo racconto pubblicato sul sito? Si. Cambierò la cosa? Non credo proprio.

 
 
 

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