Cimitero a fuoco
- Astra
- 4 apr 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Abbiamo fatto un bagno nel Tevere, verso metà giugno, anche se casa stava a un’ora di mezzi. Ti misi le mani nei capelli lunghi e rossi, ti baciai la bocca che sapeva di stagno. Uscimmo dall’acqua quando le luci di due torce, come nei film, ci illuminarono di sfuggita. Le voci di due poliziotti: «Regazzini, venite fuori!»
Ridendo raccogliemmo i nostri zaini e ci mettemmo a correre. Non ci avrebbero seguiti per una cosa di così poco conto, non alle undici e quaranta di notte.
«Questo pressappochismo mi rende fiero di essere italiano ogni tanto, guarda.» Non ero neanche sicura fosse italiano quel termine che avevi usato.
Ti accendesti una sigaretta e me la passasti per un motivo, uno soltanto. «Devi smettere, lo sai, no?»
Annuii a me stessa più che a lui. Lasciammo i piedi a penzoloni dal muretto. L’isola Tiberina era il nostro rifugio, le casette messe una sopra l’altra sembravano creare un borgo a sé stante. Tua nonna ci viveva da giovane, prima di trasferirsi a Milano con tuo nonno. L’accento romano non l’ha mai perso, mi raccontasti.
«Andiamo alla bocca?», era l’altro nostro posto.
Roma mi piaceva perché era tutta lì, per chilometri: tutta bella, tutta sfatta, e sempre diversa. Ci sarebbe stato così tanto da chiederti su di lei, che da diciannove anni guidava i tuoi vagabondaggi, dopo scuola, durante le feste, le vacanze, il weekend. Da Torrino a Castel Giubileo conoscevi sempre qualcuno. Io, di Firenze, che stavo come chiusa durante tutto l’anno, solo in estate, con te, con Roma, respiravo forte.
Attorno a mezzanotte tu mettesti la mano nella bocca della verità, io pensai alla domanda.
«Ti manco quando non ci sono?»
Alzasti gli occhi per quell’eccesso di dolcezza.
«Sempre.»
Non successe niente, facevamo finta che funzionasse per il solo sentimento di avventura. Toccò a me: «Hai fumato quando eri a Firenze?»
«No.»
Falso, fu quel senso di colpa a farmi venire un crampo alla mano, la tirai fuori in fretta. Il corpo ti tradisce nei momenti migliori. Mi guardasti come le nonne guardano i nipoti tentare di rubare caramelle da un ripiano troppo alto: con un sorriso, certo, ma anche con compassione, perché finché non riceveranno una mano non ci arriveranno mai. Così mi guardavi: come se fossi sul punto di darmi quell’aiuto. Ero senza prospettive di miglioramento, lo sapevi bene. Mentre ci pensavi mi baciasti una volta di più. Prendesti la macchina, parcheggiata da qualche parte in zona. I tuoi l’avrebbero trovata bagnata il giorno dopo, o forse no. Chissà che storiella avresti fatto loro bere.
Da romano guidi male, malissimo. Fai tutte le curve sbandando, non azzecchi il cambio in tempo e il meccanismo si oppone. Non me ne intendevo di macchine, ma avevo giurato che se per colpa tua fossimo rimasti a piedi ti avrei rigato tutti i vinili che tenevi in camera. Ti mettesti a ridere mentre io ti tiravo i capelli rossi e lunghi, ti strizzavo addosso i miei, così potevi dirmi colpevole, in parte, della tua guida scadente. Facemmo un pezzo di Raccordo Anulare che era senza traffico solo a quell’ora della notte. Rimanemmo in silenzio fino a via Tiburtina, mi avevi lasciata dormire per quasi tutto il tragitto. Sapevo dove stavamo andando: il cimitero Verano era un tuo posto. Erano ormai due, tre anni che nonostante la mia paura per i luoghi dei morti mi facevi scavalcare le cancellate per camminare tra lapidi e diaboliche statue di angeli.
Continuammo fino alla tomba di Rino Gaetano. Tu lo amavi tanto e i tuoi amici ti ridevano dietro se ti mettevi a canticchiare le sue canzoni sovrappensiero. Come da rito scegliesti uno dei lumini non del tutto consumati e lo accendesti, e poi un secondo o un terzo, quanto bastasse a fare luce perché potessimo ballare.
«A mano a mano, ti accorgi che il vento…»
Mi prendevi le mani come per un walzer. E io: «No, Richi, dài…»
Tu le stringevi più forti: «…e ti ruba un sorriso…»
«Ho sonno, Richi.»
«…stagione che sta per finire…»
Era il mio ballo preferito, oppormi ai tuoi eccessi di spensieratezza.
Dovevo fare di tutto per toglierti quella leggerezza. Infine cedetti, dimenticai la paura del buio e dei morti e mi lasciai condurre. Bisogna avere paura dei vivi, ché possono fare male, mica dei morti, mi dicevo.
Eravamo scoordinati, il mio corpo lo diceva e cercava di fermarsi, ma il mio cuore si stava divertendo, come c’era da aspettarsi. Avemmo poi il sospetto che qualcuno dalla strada ci avesse visti o sentiti, o magari era solo un pretesto per scappare di nuovo. Nella corsa quasi mi lasciasti indietro.
Arrivammo a casa non molto dopo, ancora febbrili d’adrenalina, ma ormai asciutti. Mi lasciasti al portone di casa, il tuo stava dall’altra parte della strada.
«Fatti una doccia, magari col disinfettante.»
«Okay. Oh, in bocca al lupo domani per la matura.»
«Crepi. Vado, se no domani non capisco davvero un cazzo. ‘Notte.»
«’Notte.»
Non appena superai il portone feci le scale a due a due, per arrivare in tempo alla finestra del salotto che si affacciava sulla strada. Mi piaceva guardarti un’ultima volta, la sera, mentre armeggiavi con le chiavi. Quella sera ero particolarmente felice, tanto, e Marika, nello sbucare da una traversa di via Vittorini e venirti incontro, e tu, nel rivolgerle un sorriso e due parole, e nel prenderla per i fianchi e baciarla e toccarle il seno, rovinaste tutto.
Mi augurai che la maturità ti andasse davvero di merda, tipo che ti facessero le poche domande di cui non ricordavi la risposta, che vomitassi mentre parlavi della seconda guerra mondiale, che il tuo gatto ti strappasse la camicia nuova.
Al resto ci avrei pensato un po’ io - magari deludendoti definitivamente fumando un pacchetto a settimana - un po’ la tua pessima cura, perché quei lumini che ti eri dimenticato di spegnere al cimitero avevano mandato in fiamme la tua amatissima tomba di Rino Gaetano.
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