Paul
- Astra
- 21 apr 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Si è presentato alla mia porta verso le otto, il sole stava calando veloce dietro le montagne. Si era alzata la tramontana, mi spirò in casa scuotendo le tende, alzando la polvere su vecchi mobili di cui mi sarei dovuta curare.
“Dobbiamo parlare, Sara,” mi soffiò sul viso.
Paul sosteneva di amarmi. Me lo dimostrava in modi che nessuno riterrebbe dignitosi. Per esempio riempendosi la fiaschetta e poi cercando le mie cosce, sul pavimento di casa, facendomi venire lividi quando battevo per terra. Avrei voluto essere più saggia a venticinque anni per non trovarmi ancora a trenta a sopportare senza sapere reagire, perché così Paul mi aveva insegnato, e mai qualcun altro, diversamente.
Certamente in un paesino dimenticato nello stretto spazio tra due montagne trentine il tempo si era fermato, cosicché nessuno ancora si preoccupava per una donna con qualche segno di violenza. Passava inosservata tra fucili da caccia e l’odore di legna che brucia, tre le urla dei bambini che uscivano da scuola alle quattro e mezza, ed io che ne conducevo a due a due ai genitori ed ai nonni.
“Come sta, Sara?” Domandavano, ed io bene, grazie mille, e lei, signora?
Tornavo, infilando le mani stanche nella borsa alla ricerca delle chiavi, per trovare la porta già aperta dalla copia che Paul mi aveva fatto fare per sé.
“I tuoi ci aspettano per un aperitivo più tardi, andiamo?” Mi guardava come se avessi dovuto rispondere con convinzione, come se avessi voluto davvero, dopo un’intera giornata a rincorrere piccoli esseri e pulire la loro saliva dalle cose, dover sopportare i miei genitori, che tanto elogiavano Paul e che poco mi approvavano. L’unico momento di dolcezza che era capace di dimostrarmi era darmi le chiavi della sua Land Rover, una ventina di euro e mandarmi a comprare qualche cosa per lui, ben consapevole che avrei guidato per gli sterrati della montagna che ci sovrastava, per sentire il brivido degli incidenti dietro l’angolo. Tornavo con un quantitativo di alcol proporzionale alla quantità di rabbia che ero riuscita a sfogare.
Non mi guardavo più allo specchio per paura di quello che avrei potuto trovare. Cercavo di non incontrare i miei stessi occhi quando coprivo il pallore - o l’innaturale rossore - delle mie guance con un po’ di trucco. Notò che quasi schivavo me stessa un’educatrice trasferitasi da Torino o giù di lì, che mi aiutava con i bambini più difficili. Nei momenti in cui l’angoscia di tornare a casa mi soverchiava, con la scusa di dover fare qualche colloquio con genitori noiosi o, alternativamente, esageratamente ansiosi, mi chiedeva di restare a scuola ad aspettarla per poi andare a cena insieme. Nelle settimane provò a farmi aprire, in qualche modo, a farmi parlare di quel che mi succedeva quando ero a casa con Paul. Ebbi il coraggio di raccontarle che spesso tornava ubriaco a notte fonda, metteva su qualcosa al giradischi ed iniziava ad urlare il mio nome finché io, inforcate le ciabatte, scendevo le scale di corsa, stordita dal sonno e dalla tensione, e non mettevo a ballare con lui. Nei primi minuti mi muovevo con rabbia e una sottospecie di disperazione, che mi permeava nel respiro e nelle piante dei piedi. Appena scorgevo le stelle negli occhi dell’uomo che credevo di amare - o che credeva di amarmi - mi lasciavo andare ad una forma di gioia, e mi dimenticavo del dolore che non volevo ammettere o della violenza che mi ostinavo a subire. Tornai bruscamente alla realtà per via dello sguardo seriamente preoccupato di Camilla; sensibile com’era non riconosco ancora per quale motivo stesse lì ad ascoltare le mie storie.
Più avanti tentò di convincermi a denunciare Paul, non solo per le botte ma anche per le male parole, per il suo regolare stato di ebrezza alla guida. Non ebbi proprio il coraggio di seguire il suo consiglio, non immediatamente, spaventata dall’idea non solo di essere ignorata, una volta in questura, ma che i provvedimenti contro Paul non sarebbero serviti a niente. Nei suoi accessi di rabbia ai miei occhi diventava inarrestabile, ineluttabile, potenzialmente letale. Era molto più semplice fare in modo di stare poco a casa, ubbidire come meglio potevo, assolvere al mio dovere come se non mi pesasse.
Successe invece una cosa bizzarra, da chiamare miracolo - anche se non mi piace il termine perché in certe cose non credo: Paul aveva diversi amici, ma che col tempo andavano e venivano e cambiavano non appena conoscevano la sua vera indole, non appena si faceva abbastanza debole e stupido da dire non tanto cosa faceva nel tempo libero, ma come: capitava che si facesse accompagnare con insistenza nei giorni di caccia. Così poteva stare sotto gli occhi di tutti la ferocia proprio dell’uomo di montagna, che si accaniva esageratamente sulle bestie abbattute con un colpo in mezzo agli occhi, mentre godeva dell’eco dello sparo con gli occhi chiusi. Talvolta, quasi impazzito, rideva della sofferenza di quelle prede che invece non morivano all’istante, si contorcevano e poi si abbandonavano sul muschio del sottobosco.
Una sera Paul mi chiese di unirmi ai suoi amici, alla volta di un bar per bere birra o whisky, perché anche Francesco e Michele avrebbero portato “le loro donne”, e fu bizzarro perché tentai così tanto di emulare il suo carattere spigliato che anche io bevvi qualche cosa, mi si fece l’alito pesante e la voce grave. Paul non voleva perdessi così tanto le inibizioni perché diventavo chiacchierona su quel tipo di chiacchiere che è meglio nessun orecchio ascolti. Venne il momento in cui mi appoggiai, pronta a rimettere tra un capogiro e l’altro, a Michele, gli strinsi la mano attorno ad un braccio e mi sporsi un po’ in avanti. Non appena vide la scena, Paul credette che fosse una sorta di scadente flirt, e non si trattenne dal tirarmi verso di lui e darmi uno schiaffo in pieno viso. Fu il colpo di grazia che mi fece vomitare su i suoi jeans.
“Perdonala,” disse a Michele ed Alice, la sua fidanzata, mentre con disgusto si guardava i pantaloni. “È solo una puttana. Ci penserò io a casa.”
Mugolai qualche protesta, ormai senza remore. Alice fu abbastanza furba per dire che non doveva preoccuparsi, non era successo proprio niente. Nel frattempo mi ero seduta a terra, le ginocchia al petto, aspettando che quel malessere diminuisse. Paul mi chiamò una, due volte, ma stordita com’ero lo ignorai. Mi scosse con un piede - non abbastanza forte da poter dire fosse un calcio - per convincermi ad andare verso la macchina.
Michele ed Alice si opposero, non poteva guidare in quella condizione, vi ospitiamo a casa nostra. Mi tennero lontana da Paul quanto più riuscirono. La mattina mi svegliai a mezzogiorno, come non facevo dalla mia adolescenza, la luce entrava di traverso dalla porta accostata. Alice entrò a piccoli passi, una tazza di thé bollente in mano e il viso dolcemente contratto.
“Sara, cara.” Mi avevano chiamata “cara” tantissime volte, con toni diversi nelle intenzioni e nelle premesse, ma nessuno mai l’aveva usato come Alice quella mattina.
Mi disse che lei e Michele si erano confrontati sul da farsi, alla luce del comportamento di Paul con me. Anche mio padre faceva violenza a mia madre, sai, non devi avere paura, ti aiuteremo noi. Ero così stremata e stordita dai residui di whisky che le chiesi un abbraccio, la ringraziai per essersi preoccupata ma le cose andavano molto meglio di quello che sembrava.
“Non sembra dalle cose di cui Paul si vanta con Michele,” aggiunse. Mi venne quasi da ridere, qualche attimo dopo, a pensare quanto era stato sciocco.
“E poi aveva il terrore che fossi io a parlare”.
Quando Paul si è presentato alla mia porta ho pensato di farlo entrare, di fargli fare uno dei miei giri sulla Land Rover o qualcosa di simile, dimentica dell’ordine restrittivo.
Mi sono risolta con un paio di sopracciglia aggrottate ed una banale minaccia: “Vattene o chiamo la polizia”.
L’angolo di Astra, retaggio di Wattpad
Considero Paul una parte seconda di una serie immaginaria iniziata con Pierre. Non so cosa sia successo tra le due, non so cosa mi abbia spinto a parlare di violenza e di crudeltà che decisamente non fanno parte di me. Sarà.
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